L’Altipiano dei Sette Comuni

     L'Altipiano dei Sette Comuni, detto anche di Asiago per la centralità del suo capoluogo, è un'area montana che si trova nella parte nord della regione italiana del Veneto, al confine con la regione Trentino-Alto Adige. Le Alpi e le Prealpi, alle quali la montagna veneta, e quindi l'Altopiano, appartiene, hanno costituito, e costituiscono tuttora, un ampio sistema semipermeabile che si protende dall'estremo occidente, dalle Prealpi del Delfinato in area francese, fino ai Tauri, alle Alpi Slovene e al Carso. Questo vasto ganglio geografico, abbracciando un arco di circa 800 chilometri, caratterizza l'Europa nel suo attacco con il mar Mediterraneo: un territorio che ha svolto e svolge quindi un ruolo di mediazione e scambio tra quelle culture che si sono sviluppate nelle regioni a nord e a sud delle stesse Alpi [1]. E l'Altipiano di Asiago/ Sette Comuni ha da sempre avuto un posto di rilievo in questo ruolo, quale luogo europeo di contatto tra popolazioni di origine germanica e popolazioni di origine la]tina.

Il territorio è organizzato amministrativamente in sette comunità (Asiago, Conco-Lusiana, Enego, Foza, Gallio, Roana, Rotzo) con circa venticinquemila abitanti.

     Rilievo montuoso a circa mille metri d'altezza sulle PreAlpi Venete, con alcune vette che superano i duemila metri (Cima12 2.341 e Cima11 2.127), è delimitato da ampie e profonde valli di origine glaciale, ad ovest dalla Val d'Assa e ad est dalla Valsugana, solcate rispettivamente dal fiume Brenta e dal fiume Astico. Le rocce sono di tipo sedimentario marino [2], formatesi durante l'età Mesozoica (tra i 250 e i 65 milioni di anni fa): soprattutto Dolomia Principale, il Gruppo dei Calcari Grigi, Rosso Ammonitico e Ceramica o Biancone. Nell'ultima glaciazione, circa 15.000 anni fa, ospitava nella parte sommitale un ghiacciaio di oltre 200 km quadrati; nell'epoca postglaciale, circa 5000 anni fa, era quasi interamente coperto da estese foreste.

     La rigogliosa flora dei diversi ecosistemi e la corrispondente ricca fauna avevano portato ad una frequenza saltuaria dell'uomo già in epoca preistorica, nel Paleolitico Medio con frequentazioni dell’uomo di Neanderthal (50.000/40.000 anni fa) nella zona di Canove di Roana (grotte Obar de Leute e Cava degli Orsi) ed in particolare superiore (tra i 15.000 ed i 10.000 anni fa), specialmente ad est dell'Altopiano, nell'area della Marcesina situata nel comune di Enego [3] ma anche al Prunno presso Asiago (Riparo Battaglia) e a Conco (Val Lastari). All’età del Bronzo (XIV-X a.C.) risale anche un villaggio fortificato, probabilmente a carattere stagionale, al Monte Cornion, in comune di Lusiana. Le prime tracce di un insediamento stanziale le troviamo ad ovest dell'Altopiano, vicino a Castelletto di Rotzo, e risalgono a popolazioni di origine retica [4] della seconda età del Ferro (tra la fine del V e gli inizi del I secolo avanti Cristo), i primi abitatori autoctoni dell'Altopiano, con resti di un loro villaggio dato alle fiamme probabilmente da soldati romani come ben suggerisce lo storico vicentino Giovanni Mantese in analogia con altri siti nel vicentino (del resto se fosse stato un villaggio venetico non sarebbe stato bruciato), nel II/I secolo avanti Cristo [5], romani che poi utilizzarono il territorio in funzione strategica e ne promossero lo sfruttamento da parte di genti latine.

 Del secondo-terzo secolo d.C. ancora sul versante opposto dell'Altipiano, sempre nel territorio di Enego posto in Valsugana, troviamo il fortilizio della Bastia, costruito dai romani per controllare l'arrivo di popolazioni da nord. Altre presenze romane le troviamo anche ad est: a Lusiana e Rotzo. Durante la presenza di Roma nel territorio dell'attuale Veneto non è azzardato ipotizzare che questa fosse un'area organizzata quale "ager publicus scripturarius" [6], cioè pascoli di proprietà pubblica dove si recavano in modo temporaneo pastori e boscaioli dietro pagamento (scriptura), o un ager compascuus, simile all'ager scripturarius, che veniva assegnato a comunità od a soggetti plurimi, forse anche senza obbligo di corrispondere un canone, e utilizzato col mandarvi i propri animali a pascolare. 

     Rafforzano l'ipotesi il sistema fiscale che continuò nel periodo feudale, per cui si doveva pagare una tassa per il pascolo, e l'assenza delle tracce di uno sfruttamento residenziale permanente di quest'area nell'età antica. Le liti confinarie che dureranno secoli sia all'interno tra le comunità dell'Altopiano, sia tra queste e le realtà esterne, indirettamente lo confermano.

     Erano in ogni caso territori dedicati alla monticazione temporanea, cioè al pascolo di animali nel periodo estivo, fin dall'età romana, dati i numerosi reperti dell'epoca e la identificazione recente dell'antico percorso di transumanza "Arzeron della Regina", nonché del percorso parallelo sulla sinistra Brenta, che congiungevano la romana Patavium, oggi Padova, con il Pedemonte e la Valle del Brenta, quindi con l'Altopiano. L'andamento del fiume Brenta legherà nel tempo l'Altopiano a Padova, facendone una estensione di quel Municipium romano. Rapporti che si confermeranno istituzionalmente nei secoli successivi, in particolare per l'aspetto religioso, con il controllo dell'area donato dall'imperatore Berengario a Sibicone, vescovo di Padova, di cui diremo più avanti.

 

 Anche dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, nel 476 rimase l'organizzazione collettiva della proprietà, secondo l'uso dell'antico diritto germanico, simile a quello delle Gemeinden tedesche: conservato forse dagli stessi Goti, arrivati con Teodorico nel 489 (chiamati dall'imperatore d'Oriente Zenone per combattere il generale di origine germanica Flavio Odoacre che aveva deposto l'imperatore d'Occidente Romolo Augustolo), i quali ebbero nella vicina città di Verona una delle capitali (e che sembra abbiano lasciato tracce anche nella toponomastica dell'Altopiano), e poi conservato dai Longobardi, arrivati nella penisola nel 569. Ma è più probabile [7] che in questa realtà si insediassero, anche se in modo non stabile e nella parte più prospiciente la pianura, isolati gruppi di popolazioni longobarde [8] che continuarono, applicando il proprio regime giuridico, ad organizzare la gestione della montagna secondo il sistema della proprietà collettiva dei residenti stabili, sistema che continuerà anche sotto i Franchi [9].

      Con i Franchi, chiamati in Italia dai papi per difendere il proprio potere temporale contro i Longobardi, in particolare con Carlo Magno (che con la consacrazione del papa diventa Imperatore Augusto di un territorio che comprendeva la Francia, l'Italia del nord, la Germania e la Spagna settentrionale), e la sua dinastia Carolingia che dominerà l'Europa dal 750 al X secolo, apparve il sogno di un'Europa unica ed unita, il primo abbozzo di un'identità culturale europea unitaria, in cui popolazioni di origine latina e germanica vengono unificate dalla religione, dal governo e dalla cultura, per cui i contatti della Germania con l'Italia e Roma diventarono strategici, in particolare quindi diventò molto importante assicurare libere vie di transito verso la penisola, itinerari che passavano anche ai fianchi del nostro altopiano; infatti i percorsi di collegamento tra queste aree si snodavano o dal Brennero per la Valdadige nei due rami, quello fluviale e quello montano, che evitava la strettoia della chiusa e l'ansa di Rivoli,  più tardi dalla Val Pusteria per Pieve di Cadore-Treviso, ma diventò parimenti strategica nel X secolo la variante lungo il corso del Brenta, che dalla provincia di Trento percorre tutta la Valsugana per arrivare nella pianura veneta a Bassano del Grappa [10], percorso ritenuto più sicuro e meno erto.

     In questo periodo la nostra montagna, nonostante i movimenti nelle valli, risultava ancora sostanzialmente disabitata: solo attorno all'anno mille vide sorgere i primi centri abitati, a cominciare dal margine est ed ovest verso il centro dell'altopiano,  formati da persone che parlavano un dialetto tedesco medievale. Da dove venivano e che cosa aveva spinto questi coloni ad affrontare la dura vita di montagna?

     Il fattore politico del recupero della romanità, e della sua legittimazione da parte del papa, dopo i Carolingi venne ripreso nell'XI secolo dalla dinastia degli Ottoni di Germania che si succedettero alla guida del Sacro Romano Impero (ridotto ora al regno italico e a quello di Germania);  questo elemento politico  alimentò ulteriormente i traffici di uomini e di merci lungo le vie ai  margini dell'Altopiano, ma ad esso si aggiunse nel tempo anche un fattore socio-economico: l'aumento della popolazione europea; nel tardo Impero Romano gli abitanti del continente dovevano essere oltre 30 milioni, ma si ridussero a 15/20 milioni nel secolo VIII, anche a motivo di una decina di pestilenze che li colpirono tra la metà del secolo VI e la metà dell'VIII: tra i secoli XI e XIII si avviò invece  un sostenuto incremento demografico,  dovuto al venir meno dei fenomeni epidemiologici e al miglioramento del clima, che ebbe come conseguenza un aumento della popolazione europea di una trentina di milioni di individui, portando la popolazione d'Europa alla fine del secolo XIII a settanta milioni, anche se con una distribuzione variegata, per cui si andava dalle 40 persone per chilometro quadrato della regione di Parigi, alle 10/12 della pianura padana, alle 4 della Germania e delle zone alpine italiane [11]. Questo fenomeno comunque rese insufficienti le tradizionali risorse alimentari fornite dalle coltivazioni cerealicole estensive, che non potevano essere aumentate, date le scarse risorse tecnologiche del tempo, che da una dilatazione della superficie coltivata a scapito del bosco e dell'incolto [12]. Motore principale della agrarizzazione fu in tutta Europa l'affermazione delle signorie locali, per l'Altopiano i Da Breganze ma poi soprattutto gli Ezzelino. Significativo ruolo ebbero anche le realta' religiose dei monasteri: nel caso dell'Altopiano soprattutto i Monasteri benedettini dei SS.Felice e Fortunato di Vicenza e di Campese (Vi). Inoltre, l'aumento demografico comportò pure una intensa mobilità geografica: nel frattempo infatti erano venute meno, dopo le migrazioni di popoli che avevano caratterizzato i secoli finali dell'Impero Romano, le 'seconde invasioni', cioè quelle degli Arabi-Saraceni nelle regioni mediterranee, dei Normanni nell'Europa settentrionale e degli Ungari o Magiari da est. 

       Furono probailmente queste seconde invasioni che spinsero Berengario I(850 ca. - 924), re d’Italia ed imperatore , nel 915 a donare al tedesco Sibicone, Vescovo di Padova [13], il dominio diretto sulla valle del Brenta e di tutto il territorio contiguo alla Valle: un ambito  tuttavia non ben precisato, che veniva in interesse  in particolare per le difese della valle contro le invasioni, cioè per  l'incastellamento dell'area e delle sue zone più importanti dopo la disastrosa discesa degli Ungari (infatti le tracce di castellamento le troviamo in Valsugana: presso  Contrada Torre a Valstagna, al Pian di Castello a San Nazario, al Palazzone di Campese, a Solagna testimonianza di una  torre a sud sulla sinistra Brenta a Solagna, la cui stessa Chiesa venne costruita sui resti del palazzo Ezzeliniano, e tracce di un incastellamento le troviamo infine su un costone di roccia tra Pove e Solagna), tanto che la stessa conferma che ne fece Rodolfo II nel 924 si tenne su termini alquanto vaghi [14]; si potrebbe comunque leggere tale donazione come una Restitutio ad pristinum, cioè un ritorno alla diocesi di Padova, continuazone istituzionale dell'antico Municipium romano,  del Controllo dell'Altopiano dopo che i Longobardi lo trasferirono alla Diocesi di  Vicenza in seguito alla distruzione della città di Padova nel 600; anche se tuttavia va detto che  non si ebbe  attestazione di interessi spirituali dei vescovi di Padova per quest'area se non a partire dalla fine del XIV secolo, e gli stessi vassallaggi dei Comuni dell'Altopiano nei confronti del Vescovo di Padova si attestarono solo a partire da tale periodo.

      E' con Ottone I (912 - 973), nuovo re d'Italia ed imperatore,  che ripartì il sogno carolingio dell'Europa unita: pertanto questi innanzitutto mise ordine a Roma, e per quanto riguarda il nostro territorio, nella Dieta di Augusta del 952, alla quale parteciparono numerosi vescovi e conti di Germania e d'Italia, decise che la marca Veronese (all'incirca l'attuale Veneto, più il Comitato di Trento, che divenne in seguito principato ecclesiastico autonomo nel 1027, e la Marca del Friuli, che si staccò poi nel 1077) e Aquileia dovevano essere incorporate al ducato di Baviera, con cui confinava. I rapporti tra la Diocesi di Frisinga e la Marca Veronese, a motivo dei frequenti vescovi tedeschi a Verona, Vicenza e Padova, erano già attivi da tempo: nell'823 essa aveva ricevuto dai vescovi tedeschi Franco ed Andrea di Vicenza possedimenti di famiglia in Baviera. Una documentazione attesta anche che nel 972 [15]  Ottone I donava ad Abraham , Vescovo di Frisinga (957-993), una vastissima proprietà comprendente molte località poste ai due lati del Brenta, fra i comitati di Treviso e Vicenza. Il testo alla ricerca storiografica è risultato dubbio, ma non va esclusa una verità storica sottostante [16]; peraltro è assolutamente autentico un diploma di Ottone III del 992 che confermò la donazione: i sovrani, nell'intento di controllare queste aree di passaggio, ne demandavano il ruolo a propri infeudati, tra cui primeggiavano i Vescovi, per l'organizzazione ecclesiastica che già possedevano.

     Frisinga (Freising) in Baviera (Bayern), sul fiume Isar, è situata a trenta chilometri a nord di Monaco (città fondata successivamente, nel 1158, e che diventerà quindi nuova sede vescovile). San Corbiniano qui si insediò su un tempio preesistente, dice la leggenda, fin dal 725. Si racconta che il santo ordinò ad un orso di trasportare il suo bagaglio al di là delle Alpi dopo che questo uccise il suo cavallo: per questo il simbolo della città è ancora oggi l’orso con in groppa un bagaglio, simbolo che compare pure nello stemma del pontefice  Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, che  è stato Arcivescovo della diocesi di Monaco-Frisinga, suo luogo di nascita. E' sicuro comunque sia stata sede vescovile almeno dal 739. Tra il 764 e il 783 il vescovo Arbeo fondò una biblioteca e uno scriptorium nell’Abbazia, che da quel momento diventò un importante centro religioso.

     La presenza della Chiesa di Frisinga-Monaco in territorio veneto iniziò con gli Ottoni (960/970), con il dominio temporale del Brenta, Musone, Sile, compresa Cittadella, e si protrasse, seppur in diverso e più limitato modo, per tutto il 1400, fino all'arrivo di Venezia in terraferma.

     La dinastia feudale locale più in relazione con la Diocesi di Frisinga, casato che caratterizzò la storia del territorio dell'attuale Veneto e dell'altopiano in quei secoli, fu quella dei Da Romano, in precedenza detti Da Onara ed in seguito pure Ezzelino. Ma quando arrivarono i Da Romano nella nostra area? Secondo alcuni autori, all’epoca del vescovo Hengelberto molti documenti riportano la presenza di Arpo e del figlio Ezelo tra gli alti gradi del vassallaggio episcopale di Frisinga [17], rapporti che si interrompono nel quarto decennio dell’undicesimo secolo, quando potrebbero essersi inseriti nei possessi veneti della chiesa di Frisinga. Nel 1085 [18] Ermiza, che vive secondo la legge Romana (in base al criterio della personalità della legge) ed India, che dichiara di regolarsi secondo la legge Longobarda, ed altri donatori, compreso Ezelo figlio di Arpo, che dichiarano di regolarsi secondo la legge Salica (usato come sinonimo di "Franco"), donano varie proprietà al monastero benedettino di Sant’Eufemia e San Pietro di Villanova (attuale località Abbazia Pisani di Villa del Conte [Pd]) collegato al monastero di valle San Floriano. La dizione "lege salica vivere" ci fa propendere per un loro arrivo in periodo carolingio, verso il IX secolo, ma tali professioni vanno valutate con molte riserve [19]. In ogni caso i nomi  Ecelo ed Arpo erano propri dell'onomastica nobiliare del Ducato di Baviera.

     Il cronista padovano Rolandino [20], che narra le vicende di Ezzelino III,  afferma che il suo antenato  sarebbe venuto in Italia nel 1026, al seguito dell'Imperatore del Sacro Romano Impero Corrado II detto 'Il Salico', e che sarebbe stato un semplice soldato a cavallo. Di certo il suo intento era di sminuire le origini degli Ezzelino: infatti la biografia gli era stata commissionata dalle autorità ecclesiastiche, desiderose di distruggere la figura storica di Ezzelino III, Vicario Imperiale di Federico II (non dimentichiamo infatti che in quel periodo regnavano sulla Chiesa papi che avevano a cuore solo l'affermazione della superiorità del papato sull'autorità civile e l'impegno a rinforzare lo Stato della Chiesa: dal pontificato di papa Gregorio VII (iniziato nel 1073), il quale, fervente sostenitore del primato papale sopra qualsiasi altro potere, entrò duramente in conflitto con l'imperatore Enrico IV, dando inizio alla lotta per le investiture, fino a Innocenzo IV (1243-1254), sostenitore dell'assolutismo papale,  che si impegnò soprattutto per riappropriarsi di quel Regno di Sicilia di cui era titolare Federico II). Piuttosto questo antenato potrebbe essere stato un valido condottiero, fidato dello stesso imperatore, che venne lasciato in quelle zone che controllavano lo sbocco della Val Brenta nel momento storico in cui questa aveva evidenziato tutta la sua strategicità: come nel 1004, quando Enrico II, Duca di Baviera e nuovo imperatore, venne bloccato nel suo percorso lungo l'Adige, e trovò proprio lungo il Brenta la via per arrivare in pianura. E' da notare che fu proprio in tale occasione che Enrico II concesse alcune prerogative del potere temporale al Vescovo di Trento e a quello di Bressanone, che furono poi confermate da Corrado II al Vescovo Ulderico II di Trento e al vescovo Harwig di Bressanone. Un vassallo dell'imperatore, più probabilmente quindi, questo antenato degli Ezzelino [21], i cui discendenti, seppur per tanta parte esercitarono un controllo del territorio sfuggendo agli schemi legalitari del regime feudale, si fecero infeudare dalla Diocesi di Frisinga della Curia di Godego, località strategica insieme ad Onara per controllare anche il traffico est-ovest lungo la Postumia [22]. Nella estensione del proprio dominio gli Ezzelino sembrano infatti concentrarsi sul controllo delle vie di transito: la Val Brenta, l'Altopiano, più tardi la Val d'Adige, confini naturali con il nord.

      Nel 1124 alcuni membri di questa Famiglia, cioè i fratelli Tisone, Alberico da Romano ed Ezzelino I il Balbo donarono una serie di beni al nascente monastero di Santa Croce di Campese [23], assoggettata all’Abbazia di Polirone (Mantova). ll Monastero di S.Croce di Campese fu fondato da Ponzio de Mélgueil, il grande abate di Cluny, che si recò con un seguito di monaci nella primavera del 1123 proprio qui, nell'allora definita Marca Trevigiana (termine che dal XII secolo sostituirà quello di Marca Veronese), dopo essere entrato in conflitto con il papa al ritorno dalla Terrasanta, sapendo che qui invece tanti erano i nobili feudatari legati da amicizia con l'imperatore, la famiglia dei Da Romano innanzitutto.

     Il monastero, fondato pure con il contributo del tedesco Sinibaldo Vescovo di Padova (numerosi vescovi di Padova, Vicenza e Verona furono tedeschi fino alla fine del periodo degli Svevi), non venne pensato quindi come il custode delle memorie dinastiche della famiglia, con i sepolcreti ed altro, ma, in un disegno che si svelerà nel tempo, servì anche a consolidare le prerogative feudali della famiglia sul territorio: di fatto le reti monastiche nell'Italia padana costituirono un sistema alternativo alla struttura ecclesiastica. I territori controllati dagli Ezzelino si caratterizzano per una marcatura religiosa data dalla diffusione del culto a Santa Margherita, uno dei Santi Ausiliatori tedeschi: a S.Margherita è dedicata la piccola chiesa sull'area del castello degli Ezzelino ad Onara, e ancora a S.Margherita è dedicata la prima chiesa dell'Altopiano, a Rotzo (che a quel tempo comprendeva gli attuali territori di Rotzo, Roana, Asiago, San Pietro e Pedescala, nonché Vezzena, ora trentino) [24], dove gli Ezzelino avevano un proprio gastaldo che amministrava i loro beni e arruolava soldati; ma sono della stessa epoca anche le chiese dedicate a S.Margherita a Rovegliana di Recoaro Terme (Vi) e a Durlo di Crespadoro (Vi). Nel vicino Tirolo, a Lana (Bz), nel 1215 l'imperatore Federico II donava all'Ordine Teutonico una chiesa dedicata proprio a S.Margherita [25]; anche l'unico dipinto di famiglia unanimemente riconosciuto di Federico II in Italia  (ritratto insieme alla moglie Isabella d'Inghilterra ed il figlio legittimo Corrado IV), si trova presso una chiesa rupestre dedicata ancora a S.Margherita, a  Melfi (Pz): chiaramente una  devozione che la corte degli Svevi, o i loro sudditi tedeschi,  avevano portato con se', la quale si diffonde in particolare tanto più quanto su queste montagne, come avviene pure su quelle veronesi (nelle Comunità formate da nuclei tedeschi chiamati dagli Scaligeri nel Veronese troviamo altre due chiese dedicate a S.Margherita vergine e martire: a Roncà dei Lessini e a Boscochiesanuova), si allarga l'attività silvo-pastorale di queste popolazioni di lingua tedesca. Un culto molto presente in Germania, ma assai diffuso specie nel territorio svevo-bavarese, in particolare nell'alta Baviera, specie nell'area più vicina al confine con l'Austria che va da Innsbruck a Salisburgo, la quale  conserva ancor oggi il maggior numero di Chiese dedicate a Santa Margherita d'Antiochia, ben 45, con le più antiche chiese dedicatevi come quelle di Sauerlach e di Einsbach, l'antico monastero di Bayrischzell  e la chiesa di S.Margherita di Brannenburg [26] (qui sotto una rappresentazione artistica di S.Margherita del XV secolo conservata presso il museo diocesano di Frisinga-Freising),


fino al territorio dell'attuale Alto Adige [27]. La Diocesi di Padova dal canto suo delimita invece nel tempo il proprio territorio con la diffusione del culto di Santa Giustina [28], estendendo fino ai confini della propria giurisdizione le chiese dedicate alla Santa del Monastero Benedettino esistente in città fin dall'anno 1000, che molto probabilmente fu anche l'antica sede dell'episcopio [29].

      I Da Romano, oltre ai rapporti con i Vescovadi di Padova, Vicenza, Treviso, Feltre e il Patriarcato di Aquileia, avevano un rapporto particolare con la Chiesa di Frisinga;  inoltre, tra XII e XIII  secolo, intrattennero rapporti privilegiati con la nobiltà tirolese: potrebbero quindi aver sostenuto l'arrivo di nuclei familiari provenienti dall'area teutonica, o dai territori controllati dalla ben conosciuta Diocesi di Frisinga, o  comunque da ambiti tirolesi a loro volta meta di emigrazioni bavaresi (a tutt'oggi è evidente una incredibile somiglianza orografica, climatica e di tipologie colturali tra l'Altopiano dei Sette Comuni e l'Altopiano Svevo-Bavarese), che arricchirono precedenti  presenze nell'area sconfinate nel tempo da nord, magari temporaneamente, concedendo loro particolari agevolazioni nello sfruttamento dei possessi, in cambio della fedeltà e disponibilità feudali a seguire il proprio signore nelle contese d'armi relative al controllo del territorio. Era proprio della politica della dinastia degli Ottoni infeudare di terre italiane i nobili tedeschi e continuare così la politica che fu ancor prima Longobarda e in seguito Carolingia, di incremento dell'arrivo di popolazioni tedesche nella pianura padana (con la sola esclusione di Venezia) spopolata  a motivo di disastri naturali, guerre, epidemie e carestie. Il Rolandino in tutta la sua cronaca annota la presenza dei fedelissimi tedeschi al fianco di Ezzelino III: se certo parte di questi potevano essere direttamente al soldo, la strenua fedeltà unanimemente attestata di questi uomini non si può spiegare che con legami di più forte natura [30]. Del resto, da dove potrebbero aver avuto origine i riconoscimenti di esenzioni ed autonomia alle genti dell'Altopiano in cambio di fedeltà, che furono continuativamente concessi dagli Scaligeri, dai Visconti e dalla Repubblica di Venezia, se non da previgenti rapporti tra gli iniziali coloni e i Signori che li avevano chiamati a dissodare queste lande incolte e selvagge?

    La gestione degli interessi nel territorio, di cui in parte, come detto, erano infeudati dalla Diocesi di Frisinga, portava il casato dei Da Romano a scelte differenti, ma alla fine prevaleva l'attenzione al centro della politica e della cultura europea del tempo, che stava in Germania: come il nonno Ezzelino I il Balbo guidò la fazione guelfa [31] della Lega lombarda contro l’imperatore Federico I il Barbarossa, ovvero Federico I del Sacro Romano Impero [32], e tuttavia dopo la riconciliazione con l’imperatore passò con la fazione che lo sosteneva, cioè i Ghibellini, così suo nipote Ezzelino III, inizialmente simpatizzante per la Lega lombarda, anche per le delusioni patite si schierò infine con l’imperatore Federico II, nipote del Barbarossa, che lo nominò suo Vicario imperiale.       

     Ezzelino III fu oggetto alla sua morte di una pesante "damnatio memoriae", cioè cancellazione della memoria, voluta dai poteri religiosi antighibellini, cioè antiimperiali, sotto le direttive del papa che voleva essere abritro di ogni potere sulla terra, ma pure dalle citta' Confederate (Venezia, Vicenza, Verona, Treviso, Ferrara) che si spartirono le sue ricchezze dopo un efferato omicidio di tutti i suoi successori, con la strage del 26 agosto 1260  a San Zenone degli Ezzelini del fratello Alberico e di tutta la sua famiglia: preso Alberico, gli misero un morso in bocca, quindi di fronte a lui presero i  quattro giovani figli e li decapitarono, quindi presero le  due figlie e la moglie, le  denudarono e le bruciarono vive, sempre di fronte al padre, il quale fu legato poi alla coda di un cavallo e trascinato tra rovi e sterpi. Quindi il corpo di Alberico e del figlio maggiore furono squartati e fatti a pezzi pubblicamente  a Treviso e inviati alle città confederate come trofei. Il frate Salimbene de Adam assistette a tutto questo e lo riportò su una cronaca del tempo, scrivendo: "Vidi ista oculis mei" ossia "Vidi questo con i miei occhi". Una miserabile vendetta delle città guelfe, cioè papaline, città che in verità avevano di mira solo le proprietà degli Ezzelini, e per questo attuarono tale eccidio del quale capirono bene la gravità, stante il fatto che ancora secoli dopo il pittore bellunese Giovanni De Min (1786-1859) fu dissuaso dal finire la tela che negli anni 20 del 1800 gli era stata commissionata dal Conte Fabrizio Orsato su questo episodio, conservata oggi incompiuta presso i Musei Civici di Padova, riuscì poi però a realizzare il soggetto con un'opera ad affresco presso Palazzo Berton a Feltre.

Ezzelino III non fu certo più feroce degli altri signori dell’epoca: profondamente laico (perciò inviso alla Chiesa), politicamente anzi anticipò, con una vera politica regionale, le forme di organizzazione politica signorile e rinascimentale [33], che nacquero proprio per superare gli eterni conflitti delle oligarchie dei mercanti e dei banchieri che governavano i Comuni [34]; senza contare che alla sua corte si esercitava un attento mecenatismo culturale per il quale trovarono qui rifugio i poeti provenzali in fuga dal sud della Francia devastata dalle persecuzioni contro il gruppo religioso degli albigesi, in primis Uc de Saint Circ, la prima figura europea di poeta di corte [35]. E non si può negare allo stesso Ezzelino la prepaternità del Veneto, attuata con gli ordinamenti e l'unità politica [36], tanto che qualche autore moderno arriva a sostenere che se il binomio Federico-Ezzelino fosse stato vincente "il Veneto sarebbe diventato non già una regione d'Italia ma un  Land tedesco"[37].

     Indebolito politicamente dall'improvvisa scomparsa dell'imperatore Federico II  (che aveva riunito in sè il titolo di Re di Sicilia e di Italia e Germania) nel 1250 Ezzelino III venne scomunicato da Papa Alessandro IV (che come tutti i papi del periodo temevano la perdita del proprio potere temporale e promossero perciò in primis la teorizzazione della supremazia del potere religioso sul civile e il rafforzamento del loro potere politico), il quale confidava così di potersi sbarazzare di un ostacolo alla sua politica anti imperiale, ed altri Signori approfittarono quindi della situazione per allearsi con il papa contro di lui, in particolare Vicenza vide nella sconfitta di Ezzelino III la possibilità di annettersi vaste ricchezze del territorio da lui controllato. Ed è proprio contro le prepotenze di dominio dall'esterno, in particolare del Comune di Vicenza [38] che, alla caduta dei Da Romano (1260), comincia un primo coordinamento fra le comunità dell'Altopiano, che porterà in seguito alla Reggenza dei Sette Comuni, 'Regierung der Sieben  Kamaun', che tradizione vuole abbia avuto il formale compimento giuridico nel 1311. La nascita dei grandi Comuni come Vicenza, infatti, che ruppe con la società feudale e con l'autorità imperiale, fu estranea al mondo contadino, al quale anzi si rivolse in veste di nuovo potere oppressivo per ampliare il proprio controllo su diverse sfere di attività economico-produttiva del territorio. E la Chiesa, per difendere il proprio potere temporale, si alleò con questi Comuni contro l'imperatore e i suoi uomini. Ma l'irriducibile particolarismo dei Comuni, spesso instabili e violenti, e le istanze corporative che li dominavano, se farà la forza dell'Italia nel primo Rinascimento, sarà successivamente un forte limite  per la costruzione di una realtà nazionale. Mentre nel resto d'Europa attorno alla figura del re si costruirono mercati nazionali e società nazionali [39].

     Dal 1311 al 1387, in particolare con i diplomi del 1339 e 1380, gli Scaligeri di Verona, sotto la cui tutela si erano posti, riconobbero agli "homines montanearum districtus vincentie" esenzioni fiscali e margini di autonomia dalle prerogative giurisdizionali, e quindi dalle pretese,  della città di Vicenza; disposizioni che furono confermate dal 1387 al 1405 anche dai Visconti di Milano, vincitori in alleanza con i Da Carrara sugli Scaligeri, che usarono l'espressione 'de theutonicis montanearum nostri districtus  Vincentini' [40]. Entrambe queste signorie furono ghibelline, i Della Scala a partire dal 1263 e i Visconti a partire dal 1277. 

     E' in questo periodo che Venezia si affacciò sulla terraferma: formatasi in seguito alla fuga sulle isole a causa dell'invasione Longobarda, divenne ducato (come Napoli, Amalfi e Gaeta) di Bisanzio, l'antica Costantinopoli,  che nonostante le invasioni continuò a controllare i centri costieri della penisola. I rapporti tra Venezia e Bisanzio diverranno tesi verso il XII secolo, per diventare poi contrattuali e competitivi, tanto che Venezia fece dirottare sulla cristiana Zara e sulla stessa Bisanzio,  la quarta crociata nel 1202  (in origine diretta verso l'Egitto, con il quale però i Veneziani commerciavano), occupandola e depredandola (1204), e successivamente  i veneziani permisero praticamente la definitiva occupazione da parte dei  Turchi (con i quali pure Venezia commerciava), ritardando i soccorsi navali nel 1452 [41].

     Dopo la guerra di Chioggia (1378-1381), e soprattutto dopo l'avanzata dei Visconti tra il 1387 e il 1390, infatti,  la Repubblica oligarchica di Venezia, timorosa di diventare una semplice città portuale di un territorio non controllato direttamente, bisognosa inoltre di difendere il patrimonio fondiario in terraferma (dove, dopo la crisi economica del XIV secolo, le famiglie veneziane avevano iniziato a cautelarsi cercando forme di rendita più sicure del commercio, come le rendite fondiarie), e di attivare una politica delle acque che confluivano in laguna, iniziò un'inedita espansione verso l'entroterra mediante una incessante e nervosa attività diplomatica e di guerra, in seguito alla quale molte città, per necessità o per calcolo, ne accettarono il dominio, cercando di ritagliarsi più ampia autonomia possibile [42]. 

     Con l'improvvisa morte di Gian Galeazzo Visconti nel 1402 il quadro politico si fece confuso ed imprevedibile: in tale frangente  Vicenza, Cologna, Belluno, Bassano e Feltre optarono per la dedizione a Venezia. A parte il principato di Trento a nord, tutto il territorio che circondava l'Altopiano era  controllato direttamente dalla Repubblica: non fu quindi una scelta così scontata, come si è sempre sostenuto, visto che  ci vollero otto mesi dopo Feltre perchè la Reggenza  ritenesse opportuno optare per la dedizione allo Stato Patrizio della Serenissima, ma sempre cercando di conservare privilegi ed indipendenza organizzativa; il documento è del 20 febbraio 1405 [43]: si anticipò così solo Verona e Padova, città peraltro contese con i Visconti e con i Carraresi. Con tale atto la Reggenza si obbligava a pagare una 'gravezza di dedizione' di 400, che poi diventarono 500 lire venete, con esenzione da ogni altro onere o imposta (in verità non vi fu totale esenzione, ma il trattamento tributario fu sempre privilegiato) e si impegnava a difendere i confini a nord. La Serenissima assicurava protezione alla Reggenza, entrata così a far parte della Repubblica. La 'patente dogale' del 1405 amplia probabilmente le esenzioni, le franchigie e i benefici precedentemente instaurati, in quanto, data la congiuntura storica e i problematici rapporti del tempo tra Venezia e Massimiliano d'Austria, i territori di confine rivestivano un ruolo ancor più strategico (come avvenne  peraltro con i riconoscimenti alle comunità di montagna nel bresciano e nel bergamasco).

      L'ordinamento federativo della Spettabile Reggenza dei Sette Comuni ('Septem Communia': Asiago, Lusiana ed Enego, i tre più popolosi, e Rotzo, Roana, Gallio e Foza) prevedeva un Cancelliere, eletto dai 14 rappresentanti comunali, o reggenti, due per Comune, che amministrava i beni della comunità: infatti, oltre ai beni di ogni Comune, amministrato dai rispettivi governatori e sindaci, esistevano beni comuni a tutti. La Reggenza si radunava ad Asiago, dove risiedeva il suo Cancelliere, ed aveva Nunzi presso le principali città del Veneto dominio [44]. Per questo fatto il giurista Ivone Cacciavillani parla di rilevanza 'statuale ' autonoma della Reggenza, 'status' che conservò sotto la Serenissima, e che perdurò anche dopo la caduta della Repubblica Veneta, avendo visto riconfermati i suoi antichi privilegi e la sua struttura organizzativa autonoma dall'Imperatore d'Austria Francesco II, tanto che Cacciavillani ha valutato la natura giuridica di tale rapporto quale 'protettorato' [45].

     Gli abitanti dell'Altopiano ben sapevano, e temevano, che in seguito a tale scelta, se  l'autonomia organizzativa e le esenzioni fiscali concesse venivano riconosciute per il ruolo strategico giocato dalle loro montagne, sarebbe accaduto che, come un tempo esse erano state zone di incontro tra culture e traffici liberi tra nord e sud,  ambito aperto di immigrazione e mistilingue, per essere ora definite invece zone di confine tra Stati sarebbero diventate automaticamente il teatro degli attriti tra contendenti il cui peso politico avrebbe ingigantito gli effetti di ogni eventuale crisi

      Infatti la decisione dell'espansionismo in terraferma e quindi il coinvolgimento nella politica italiana  da parte di Venezia portarono nell'immediato ad almeno un secolo di guerre, molte delle quali  coinvolsero quindi inevitabilmente l'Altopiano: già nel 1425 Venezia  cercò di impadronirsi dei castelli di Beseno (a nord di Rovereto) e di Nago-Torbole,  zone di confine che inasprirono i rapporti con i Conti di Tirolo e di Arco, tanto da arrivare successivamente ad una vera e propria guerra contro Venezia per motivi di dazi, che portò  nel 1487 all'arrivo sull'Altopiano di truppe trentine e tedesche guidate da Sigismondo d'Austria, duca del Tirolo, per  poter scendere nella pianura vicentina e attaccare Venezia, mettendo a ferro e  a fuoco il territorio; ma per avre le risorse necessarie per la guerra, Sigismondo ipotecò i suoi domini, e con la guerra stava pure creando notevoli danni al commercio con la Germania, per cui l'imperatore Federico III lo pose sotto tutela.  In seguito, nel 1508 Massimiliano I stava scendendo verso Roma, chiamato apposta da papa Giulio II che voleva incoronarlo Imperatore per fare uno sgarbo a Venezia che aveva occupato alcune città romagnole dello stato pontificio, per cui Venezia ne rifiutò il passaggio per i suoi domini, fatto che provocò la dichiarazione di guerra tra i due stati, ed il passaggio sull'Altopiano dell'esercito dell'Imperatore d'Austria che cercava di scendere in pianura passando per la Valdassa. In entrambi i casi Venezia si premurò di rinforzare la Valsugana ed il pedemonte, ma non la zona di montagna, che dovette organizzarsi autonomamente.  

 

 Alla fine del 1508 Massimiliano d'Austria, Luigi XII di Francia, Ferdinando V di Spagna, il papa Giulio II e gli Estensi ed i Gonzaga si allearono contro Venezia; nel 1510 Venezia ed il papa Giulio II si allearono contro Luigi XII di Francia, Massimiliano d'Austria e Alfonso I duca di Ferrara; nel 1511 Venezia si alleò con Giulio II,  Ferdinando V di Spagna ed Enrico VIII contro Luigi XII di Francia; nel 1513 Venezia si alleò con Luigi XII di Francia contro Ferdinando di Spagna e Massimiliano d'Austria: balletti di alleanze fra Venezia e le altre potenze che in modo diretto od indiretto pesarono sulle sorti dell'Altopiano, per trovarsi esso ai confini sia con l'Austria, che con la Spagna di Carlo V che aveva acquisito il ducato di Milano.

      Ma l'anima 'cimbra' non era morta: infatti fino  al XVI secolo le parrocchie dell’Altopiano erano affidate a sacerdoti tedeschi che parlavano il tedesco medievale usato dalla popolazione: e' interessante notare che la maggior parte proveniva da Diocesi Bavaresi,  tra queste Ratisbona, Passau, Augusta, Norimberga [46]. Lo spartiacque fu il Concilio di Trento (città scelta proprio perchè mezza tedesca), convocato dal Papa per affrontare la riforma protestante, che in area tedesca era nata: venne da questo momento diminuendo fino a cessare l'arrivo di preti d’Oltralpe, anche se ancora nel 1602 il Vescovo di Padova diede alle stampe il primo catechismo della dottrina cristiana in cimbro, cioè antico alto tedesco. Altro elemento di tradizione religiosa tedesca l’uso di bere il vino benedetto alla comunione nella festa di San Giovanni Evangelista, il 27 dicembre, come viene ricordato nelle raffigurazioni delle cinquecentesche pale d’altare di Asiago e Foza [47].

      Nel XVI secolo le liti confinarie (qui sopra una carta dell'Altopiano nel 1500) diventarono ancora più pesanti, soprattutto dopo che Venezia cedette il territorio di Folgaria all'imperatore Massimiliano, e dopo il sostanziale non impedimento da parte della Serenissima dell'occupazione della strategica posizione del Covalo del Buttistone da parte di un castellano dell'arciduca Ferdinando d'Austria. Un arbitrato veneto-imperiale del 1535, poi, finì per assegnare la terza parte dei boschi di Marcesina a Grigno. La situazione era diventata così grave che Venezia nel 1575 nominò anche qui, come avvenne in altre terre di confine, un "ispettore o provveditore ai confini", il primo dei quali fu il vicentino Francesco Caldogno.  Si dovette comunque infine arrivare ad una trattativa nel 1605, risultato dei lavori di una Commissione riunitasi a Rovereto, nella quale stavano rappresentanti dell'arciduca d'Austria Massimiliano, e di Venezia e Vicenza, ma nessuno dell'Altopiano; la sentenza, chiamata "sentenza roveretana", stabilì una "nuova mutilazione" [48] dell'Altopiano: infatti il territorio di Vezzena venne assegnato a Levico, a Grigno fu invece data una porzione di territorio che dal Brenta arrivava fino alla piana di Marcesina, ed il Monte Frisone rimase diviso in tre parti. Una situazione così potenzialmente esplosiva, che nel 1623, su richiesta di Venezia, si dovette organizzare una "Milizia dei Sette Comuni" (sulla tipologia delle 'cernide' costituite da Venezia nel 1593, e formate da contadini soggetti a periodici addestramenti: in caso poi di guerra sui Domini di Terraferma Venezia le integrava facendo massiccio ricorso a compagnie mercenarie) che fu in seguito definita "Milizia dei Sette Comuni e del Canale del Brenta", dopo il coinvolgimento anche di Valstagna, Oliero e Campolongo. Finalmente una soluzione delle vertenze confinarie fu trovata nel 1754 tra i rappresentanti d'Austria e Venezia riunitisi ancora una volta a Rovereto, e nel 1783 si trovò pure una transazione nel conflitto secolare della Reggenza con Vicenza sul possesso delle cosiddette"montagne vicentine". 

     Da ricordare, nel corso di questi anni, precisamente nel 1709, la visita e l'entusiastico incontro del re di Danimarca Federico IV con la popolazione di Asiago, dove volle portarsi dopo essere stato a Vicenza ed avere udito che su questi monti abitavano genti che parlavano una lingua nordica: da quel momento cominciò l'interesse degli specialisti, anche stranieri, per l'area alloglotta dell'Altipiano.

     Nel 1796 Napoleone Bonaparte arrivò nel Veneto per scontrarsi con gli Austriaci che controllavano Verona oltre a Mantova. Dopo la fine della Serenissima, decretata dal Maggior Consiglio il 12 maggio 1797, il generale Belliard, su comando del generale Joubert, tentò di occupare l'Altipiano e, dopo una serie di scontri ed incontri, l'8 luglio il governo francese da Vicenza chiese formalmente di essere riconosciuto ufficialmente, mentre una successiva trattativa portò alla stesura di un trattato, chiamato 'Convenzione di Venezia' dal luogo della sua conclusione. Il nuovo 'Governo della Municipalità' era formato da sette membri che duravano in carica un trimestre , scelti tra i ventotto membri dell'Assemblea nella quale erano rappresentati in proporzione tutti i Comuni. Vennero nominati anche due ambasciatori per i rapporti con le altre città. Furono pure riconosciute le 'provvidenze, usi e consuetudini', nonché l'esenzione di dazi e gabelle, e fu inoltre stabilito il divieto di abolire il pensionatico, per contro addossandosi la Reggenza le spese di gestione e controllo del territorio. In verità già nel 1794 la Deputazione all'Agricoltura della Serenissima aveva presentato una proposta di abolizione completa del pensionatico: il 5 febbraio 1795 il Collegio al pensionatico della Serenissima  aveva stabilito che il pensionatico non faceva parte dei privilegi riconosciuti [49]!

      Circolava intanto la notizia che la situazione sarebbe presto cambiata per una probabile cessione del Veneto all'Austria, per cui, ancor prima del Trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), la Reggenza invio' ad Innsbruck due legati che incontrarono il comandante della città, Maurizio da Braham, assicurandogli che la popolazione dei Sette Comuni avrebbe accolto con gioia i rappresentanti dell'Imperatore. Infatti "l'avvento del dominio austriaco fu salutato dagli abitanti dei Sette Comuni con viva soddisfazione. In tutte le chiese si tenne un triduo di ringraziamento, proprio come se fosse avvenuta una liberazione. Il 4 febbraio un editto imperiale ordinò lo scioglimento di tutte le organizzazioni politiche instaurate dai Francesi e il ripristino di quelle preesistenti... Il 24 febbraio 1798, quattro rappresentanti del nuovo Governo si recarono a Vicenza dove, dinanzi al maresciallo Kray, giurarono fedeltà all'Imperatore e Re Francesco II" [50].

      In questo periodo, nel 1804, i Sette Comuni furono visitati dall'arciduca d'Austria Giovanni d'Asburgo. "La visita assunse il carattere di un riconoscimento del loro Governo. Dopo aver ricevuto l'omaggio di una rappresentanza dell'autorità civile, militare ed ecclesiastica recatasi ad incontrarlo a Vézzena, l'arciduca, scortato dalla Milizia dei Sette Comuni, proseguì fino ad Asiago dove fu ossequiato dai membri della Reggenza e dai deputati comunali. Il giorno seguente visitò Gallio, Foza ed Enego, fatto segno dovunque a manifestazioni di viva simpatia" [51].

     L'Austria ripropose presto un'alleanza con l'Inghiterra, la Russia e la Prussia contro Napoleone: venne a questo scopo riorganizzata anche la Milizia sull'Altopiano. Ma i Francesi sconfissero gli Austriaci e salirono quindi sull'Altopiano per occuparlo il 6 novembre 1805; poco dopo il vicino Tirolo austriaco fu sottratto all'Austria e sottoposto al Regno bavarese, alleato dell'Impero Francese. Centralisti e statalisti per l'deologia giacobina che caratterizzava la rivoluzione francese, i francesi abolirono ogni forma di autonomia che incontrarono: il 1 gennaio 1806 i Sette Comuni vennero uniti al Regno d'Italia, e i beni della Reggenza sottratti dallo Stato. Nel 1806 fu istituita l'anagrafe civile, l'istruzione elementare a carico dei Comuni, ma previsto pure il servizio di Leva obbligatorio. Il 29 giugno 1807 il regio prefetto del Dipartimento del Bacchiglione, ad Asiago davanti ai membri della Reggenza, dichiarò "abolito il Governo federale, ossia la Reggenza, e incorporato a tutti gli effetti nel regno d'Italia il territorio dei sette Comuni e Contrade" (qui sotto la mappa del confine veneto-tirolese sul Monte Frizzon di Enego).  Le insorgenze contro i Francesi caratterizzarono tutta l'Europa tra il 1797 e il 1814: nell'aprile del 1809, Andreas Hofer ed altri congiurati sostenuti dall'Austria promossero un'insorgenza in Tirolo contro i franco-bavaresi, che ben presto dilagò in tutto il nord Italia contro i francesi, a motivo della crisi economica, delle tasse soverchianti e della leva obbligatoria. Il proclama dell'Arciduca Giovanni d'Asburgo del 14 febbraio 1809 esortava anche gli abitanti dei Sette Comuni a ribellarsi ai francesi. Il 9 luglio insorse finalmente anche Asiago, dove alcuni assalirono gli Uffici pubblici. Il 17 luglio il Vice Prefetto di Bassano Antonio Quadri, che il 18 aprile precedente era scappato da Bassano con tutta la famiglia,  promosse l'intervento contro l'Altopiano con 300 fanti e 50 soldati: arrivati nei pressi di Asiago si fece loro incontro con un gruppo di persone il commerciante Giovanni Maria Pesavento, che teneva alzata una  bandiera bianca per trattare, ma fu ucciso immediatamente con un colpo di fucile. Scoppiò quindi una guerriglia che fece decine di morti tra i cittadini di Asiago e dei paesi vicini accorsi per affrontare l'occupante francese.

Ma l'identità cimbra non era morta: nel 1813 il vescovo di Padova Francesco Scipione Dondi Dall'Orologio pubblicò il nuovo catechismo napoleonico tradotto in cimbro.

Sconfitto Napoleone, le potenze vincitrici, cioè Inghilterra, Russia, Austria e Prussia, con il Congresso di Vienna del 9 giugno 1815 divisero l'Italia in 5 stati: il Piemonte (con Sardegna, Savoia e Nizza), il Lombardo-Veneto,  il Granducato di Toscana, gli Stati Pontifici, il Regno di Napoli (comprendente la Sicilia, poi appunto detto Regno delle due Sicilie).  Si voleva evitare la rinascita della potenza francese, per cui si rinforzò il Piemonte assegnandogli anche la Liguria, e si assegnò per questo il Lombardo-Veneto all'Austria, che aveva anche il controllo virtuale sul resto del nord e sul centro Italia.

     Nel 1815 l'Altipiano venne dichiarato dal governo austriaco "Distretto VI della provincia di Vicenza", e si dispose che i beni della Reggenza venissero riaffidati ai Comuni, anche se amministrati da un funzionario esterno fino al 1861, quando, con il riconoscimento degli Enti morali, venne istituita una amministrazione sulla tipologia della vecchia Reggenza. Sotto il governo austriaco l'istruzione elementare divenne obbligatoria e l'assistenza medica per i poveri gratuita.

      Negli anni 1845-47  una crisi economica colpì l'Europa e quindi anche il Veneto, e favorì i fermenti rivoluzionari sull'onda delle idee diffuse dalla  rivoluzione francese che chiedevano riforme liberali e costituzionali:  tumulti a sostegno di un calmiere sui generi di prima necessità seguirono in particolare alle carestie del 1816-17, 1829-30, 1846-47: in tali occasioni il governo austriaco vietò l'esportazione di grani, ma questo non impedì l'incetta da parte della borghesia mercantile per dirottarli dal porto franco di Venezia verso l'Inghilterra, che nel frattempo aveva tolto i dazi di importazione. Contribuì alla crisi e alle tensioni sociali la legge del 16 aprile 1839 che, sull'onda di un processo culturale che sosteneva la necessità di una trasformazione capitalistica della produzione agricola, dispose che i terreni comunali di uso collettivo, in particolare gli incolti destinati al pascolo, fossero trasferiti ai privati. Il provvedimento legislativo si aggiungeva alla napoleonica legge 27 maggio 1811, rimasta in vigore: essa imponeva notevoli restrizioni alla possibilità dei privati di disporre liberamente dei propri boschi, così come di quelli pubblici. Una resistenza tenace a tale provvedimento si sviluppò anche sull'Altopiano, dove 6000 famiglie si spartivano in proprietà 2000 ettari di terreno, che però non avrebbero potuto vivere senza i 15.600 ettari di boschi e pascoli comunali;"nella rivoluzione del 1848 i contadini pensarono di riprendersi quanto era stato loro sottratto" [52]. In questa fase di diffusa crisi furono coinvolti anche i ceti popolari, che  sull'Altipiano si impegnarono nella "Legione Cimbrica",  anche se con motivazioni ben diverse da quelle di coloro che li guidavano, e cioè gli universitari e i rappresentanti delle libere professioni, che soffrivano l'esclusione dal sistema impiegatizio gestito dagli austriaci. Successivamente furono infatti coinvolte nei moti prevalentemente le realtà delle classi borghesi e degli intellettuali ecclesiastici, cresciuti nel clima politico della città di Padova. Un testimone diretto di quei tempi è l'abate Modesto Bonato (1812-1902):  'Durante lo stadio bellicoso del 1848/49 le popolazioni de' Sette Comuni tennero rivolto l'animo e gli occhi precipuamente a Venezia...ben capivano che non era da aspettarsi l'antico godimento delle franchigie da ogni dazio, ostando la mutata condizione dei tempi; ma tenevano per certo, se risorgeva la Repubblica, di migliorare le loro sorti e pubbliche e private col ricupero delle Comunali libertà già soppresse e mutilate, e colla reintegrazione della loro locale Spettabile Reggenza. Per tali sentimenti avvenne che, ricaduta Venezia sotto il potere dell'Austria, alieni o ritrosi si mostrassero dal fondersi per via di costrizioni al Regno di Piemonte...meno stimando lo splendore di un Regno, a cui aggregarsi, che non il far parte da sè stessi in piccolo Stato, sul fare della Repubblica di S.Marino' [53].

      Con il sostegno dell'esercito di Francia, che vedeva così estendersi la propria sfera di influenza, e con il supporto degli inglesi (sostenitori del libero commercio, e con forti interessi al sud), nonché con l'aiuto dei repubblicani  anticlericali al seguito di Garibaldi, anche a costo della repressione nel sangue delle sollevazioni dei contadini ai quali era stata promessa la distribuzione delle terre, il monarchico governo Piemontese  si annetté quasi tutta la Penisola, ad eccezione di Roma e del Veneto.

     Nel 1866 il governo italiano firmò un trattato di alleanza con la Prussia, la quale stava preparando la guerra con l'Austria: se avesse vinto, la Prussia si sarebbe impegnata a cedere il Veneto  all'Italia. L'Austria, saputo dell'accordo, offrì direttamente il Veneto all'Italia in cambio della neutralità. Il governo italiano rifiutò. Ebbero così luogo due battaglie che potevano essere evitate: a Custoza e a Lissa, dove gli italiani furono sconfitti dagli austriaci. Furono i Prussiani a vincere l'Austria a Sadowa, e così il Veneto, che l'Austria cedette alla Francia, dalla Francia fu consegnato all'Italia.

     Il 21 ottobre 1866 si ha così l'annessione all'Italia del Veneto (nonché della provincia di Mantova e il Friuli, eccetto l'area di Gorizia) e quindi anche dell'Altopiano. Nel frattempo, a causa una pastorizia in crisi per la definitiva abolizione del pensionatico e per la preferenza delle lane inglesi da parte dei lanifici vicentini, e il maggior uso del ferro anziché del legname nelle industrie cantieristiche dell'Arsenale, il distretto dei Sette Comuni era una zona depressa dal punto di vista economico. Ma il nuovo Stato, nonostante alcuni interventi in opere pubbliche, non programmò lo sviluppo delle realtà di nuova aggregazione, a differenza di quanto si apprestava a fare il Parlamento Luogotenenziale veneto [54], espressione del governo austriaco del Veneto,  il quale alla fine del 1865 decideva che a partire dal 1867 sarebbe stata istituita nella Regione una nuova provincia, quella di Bassano del Grappa, formata dai territori dell'Altopiano, il marosticense e tutti i comuni del Canale del Brenta, nonché il Distretto di Asolo, e perciò dispose allo scopo precisi studi economici del territorio coinvolto. Il nuovo Stato applicò invece indistintamente ai nuovi sudditi forti e nuove tasse per pagare i debiti dei sette miliardi di lire spese nelle guerre risorgimentali, e per lo stesso motivo furono ridotti al minimo gli investimenti pubblici (quindi assistenza e sanità pubbliche). In particolare si estese a tutta la penisola un meccanismo fiscale strutturalmente squilibrato, inefficiente, i cui effetti gravavano, spesso in maniera intollerabile, sulle classi più povere e numerose delle popolazioni: comune a tutti gli stati preunitari, compreso lo stesso Regno di Sardegna, era infatti lo squilibrio rilevante tra le imposizioni dirette e quelle indirette, in quanto la maggior parte proveniva da quelle indirette: era infatti quasi inesistente una imposta personale sul reddito; solo nel Lombardo Veneto [55] i ricavi dell'imposizione diretta si aggiravano intorno all'80 per cento dell'imposizione indiretta sui consumi, mentre nel Regno di Napoli solo 1/3 delle entrate proveniva dalla imposizione diretta: il tutto era dovuto alla assenza o inefficienza dei catasti, che non esprimevano la capacità contributiva delle singole proprietà; in tutta l'Italia meridionale erano meramente descrittivi: solo l'italia che era stata asburgica era quella dove i catasti, su base geometrico particellare, davano maggiori garanzie di precisione. In sintesi, si continuò a far pagare le tasse in base ai consumi (tassa sul macinato, sul sale, sul gioco, ecc.), e non in base alla ricchezza, colpendo quindi i più poveri. E così negli anni immediatamente successivi, in particolare dal 1880, ha inizio anche sull'Altopiano l'emigrazione verso il mondo, specie nell'ultimo ventennio del secolo, ma continuerà anche dopo la prima Guerra Mondiale, non cesserà tra le due guerre, e continuerà pure dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le mete saranno agli inizi la Germania, l'Austria o la Svizzera, pure per l'affinità linguistica, per poi indirizzarsi, dopo che la Prima guerra mondiale aveva impoverito la Mitteleuropa, verso il sud America, gli Stati Uniti, ed in seguito anche Australia."L'entrata del Veneto nel nuovo Regno d'Italia coincise con l'avvio di un periodo di malgoverno e reciproche incomprensioni tra i nuovi ceti dirigenti e le popolazioni annesse, e con calamità naturali, trasformazioni economiche, forte concorrenza estera, che impoverirono ulteriormente i gruppi sociali più deboli e ne potenziarono la vocazione migratoria" [56].

      La crisi nell’uso della lingua alto tedesca  cimbra iniziò invece con la Prima Guerra Mondiale.

     Casa Savoia, che nei poco più di ottant'anni di presenza regnante sulla penisola italica fu capace di 'regalarle'  ben due guerre mondiali e una dittatura, aveva chiesto già molto sangue  agli italiani (nel 1915 ufficialmente tali da poco più di cinquant’anni) con gli interventi coloniali a Dogali, ad Adua e in Libia. Eppure, nulla in confronto all’ecatombe che sarebbe stata la Prima Grande Guerra.

      Nel 1914 il Governo italiano si era dichiarato neutrale, in quanto il Patto difensivo del 1882, rinnovato nel 1887, con la Triplice Alleanza (oltre all'Italia, Germania e Austria) non lo impegnava in una guerra d’aggressione; invece poi, senza comunicarlo al Parlamento, il governo firmò un accordo segreto a Londra (26 aprile 1915) con le forze dell'Intesa (Francia, Russia ed Inghilterra), disdisse l'alleanza con l'Austria e la Germania il 4 maggio 1915, e dichiarò quindi  la guerra contro l'Austria-Ungheria (24 maggio 1915) e poi contro la Germania (28 agosto 1916). "L'entrata in guerra dell'Italia avvenne senza che su di essa ci fosse unità  di sentimenti. Il paese, nel maggio 1915, era profondamente diviso"[57].

     La Prima guerra mondiale non fu per l'Italia una guerra di difesa, ma una guerra di espansione nazionalistica (di quello stesso nazionalismo che fece di nuovo precipitare l'Europa in guerra nel 1939-1945, con l'intervento dell'Italia voluto dal Fascismo, che governava l'Italia con la benedizione del Re). Nè la maggioranza del Parlamento, nè la maggioranza della popolazione volevano la guerra, l'intervento fu sostanzialmente  deciso dal Re Vittorio Emanuele III, forzando il Parlamento,  e dai conservatori della destra parlamentare: il capo del governo (che poi nel 1922 appoggerà l'ascesa al potere di Mussolini) Giovanni  Salandra, proveniente dalla Sicilia, terra di interessi inglesi, e dal suo Ministro degli esteri, l'anglicano barone Sidney Sonnino:"L'insieme dei fattori che avevano portato alla decisione, e soprattutto quest'ultimo, concitato finale, offrono molti argomenti alla tesi del 'colpo di stato', inteso come violazione delle regole costituzionali o almeno della volontà parlamentare da parte della monarchia...Era la prima volta, ma non sarebbe stata l'ultima. La cosa si sarebbe ripetuta nell'autunno del 1922" [58]. Notevole ruolo fu giocato dalla stampa nel sostenere presso l'opinione pubblica l'intervento bellico, giornali finanziati dai grandi gruppi industriali che troveranno nella guerra la fonte di immensi profitti: il 'Giornale d'Italia' (finanziato dagli imprenditori immobiliari di Roma P. Bertolini, C. Ferrero di Cambiano, G. Bastogi, E. Maraini, G. Potenziani, E. Bergamasco ed E. de Asarta), il 'Corriere della Sera' (finanziato dal cotoniere Benigno Crespi, nonchè dalla famiglia  Pirelli), il 'Resto del Carlino' (finanziato da zuccherieri ed agrari:  Piaggio, Bruzzone, Raggio, Pini e Gherardi), il 'Popolo d'Italia' [59] diretto da Mussolini (finanziato da Giovanni Agnelli della Fiat, da Pio e Mario Perrone delle acciaierie Ansaldo, dall'imprenditore Parodi, dal governo francese e da quello inglese), 'Il Messaggero' e il 'Secolo XIX' (di proprietà ancora dei fratelli Perrone dell'Ansaldo). Intanto il governo ricorreva a prestiti nazionali e a prestiti stranieri per le spese di guerra: il 99% del debito di guerra sarà nei confronti della Gran Bretagna (pari a 611 milioni di sterline) e degli Stati Uniti (pari a 1648 milioni di dollari), mentre i Bot in circolazione passarono da 401 milioni di lire nel 1915, a 4,1 miliardi nel 1917, a 14,5 miliardi nel 1919, fino a raggiungere la punta di 24,1 miliardi nel 1922. 

    Nessun attacco austriaco aveva minacciato il territorio italiano, quando il 24 maggio 1915 il forte italiano di Monte Verena sparò il primo colpo di cannone contro il forte Busa Verle di Vezzena, iniziando così una guerra di cannonate tra le fortezze degli altipiani veneti e quelli trentini. Nessun austriaco armato aveva attraversato il confine italiano, quando le truppe italiane, che mossero improvvisate azioni offensive di fanteria nel settore del Verena e di Rovereto, causarono i primi morti. E' solo in seguito, nel maggio del 1916, che l'Altopiano vide l'avanzata degli austriaci per prendere alle spalle il fronte italiano orientale, con combattimenti che durarono fino al novembre 1918. La popolazione dell'Altopiano (ad esclusione di Enego, almeno per quel momento) venne così improvvisamente mandata profuga in tutta Italia (più di 500 persone addirittura in Sicilia), persone oggetto di disprezzo o di rifiuto perchè parlavano un idioma tedesco, se non anche in alcuni casi imprigionati perché sospettati di essere spie in quanto usavano la lingua del 'nemico', come accadde a diversi sacerdoti dell'Altopiano, colpiti  con il chiaro intento di intimidire il non interventismo cattolico e terrorizzare la popolazione [60].

   Eppure Cadorna sapeva bene dell'enorme concentramento di truppe al confine, per le numerose informazioni avute e le verifiche effettuate dall'Ufficio Informazioni della Prima Armata. Ma con gli austriaci entro i confini italiani ebbe buon gioco nel trasformare una guerra che era offensiva - era iniziata infatti con l'invasione del territorio austriaco da parte dell'esercito italiano - in guerra difensiva, e quindi ad ottenere  il sostegno della popolazione, la cui maggioranza era contraria alla guerra, e dei soldati, perlopiù contadini che non avevano alcun afflato patriottico nei confronti del nuovo stato italiano nè della monarchia.

     Ai giovani dell'Altopiano chiamati alle armi, poi, veniva ordinato di sparare contro quei popoli che li ospitavano regolarmente per lunghi mesi all'anno nell'emigrazione stagionale: quali taglialegna e carbonai nei boschi della Slovenia, Stiria e Carinzia; operai nelle miniere tedesche della Saar, Alsazia e Lorena; minatori nelle miniere di ferro della Stiria e della Boemia, in quelle di argento di Banskà Stiavnica in Slovacchia, in quelle di carbone della Westfalia; palatori per i canali di irrigazione in Ungheria; operai per i lavori ferroviari nei Balcani ed in Anatolia. E finita la guerra, sconvolti quei paesi dal disastro militare, l'Italia ringraziò questi soldati abbandonandoli ancora una volta all'emigrazione, ma ora verso la Francia e il Belgio in Europa, o verso le Americhe e l'Australia [62].

     Gli abitanti dell’Altopiano dei Sette comuni, sia per la lingua locale “cimbra” che per essere in zona di confine, divennero il capro espiatorio dell'incapacità dei comandi militari italiani, dopo i deludenti risultati dei primi mesi di guerra: la Battaglia dei Forti, dopo un iniziale vantaggio italiano, si risolse con lo smantellamento del Campolongo e del Verena a carico dei mortai Skoda da 305 austriaci. Solo il 23 settembre si arrivò, pur con gravi sacrifici, a occupare monte Coston, una spina nel fianco dello schieramento italiano. Perché dunque i tiri dei cannoni austriaci sono così precisi, mentre quelli italiani risultano apparentemente inefficaci? Chiaramente per colpa degli abitanti dell’Altopiano che di notte mandano segnalazioni luminose al nemico: ecco dunque che il 4 luglio 1915 iniziano gli arresti di cittadini, ma in particolare di preti in cura d'anime, poi assolti nel successivo mese di agosto, però comunque internati molto lontano.

     Pesante fu il contributo complessivo di morti che l'Altopiano conobbe nel Primo conflitto mondiale: 784 giovani, con età media di 24 anni, la  più giovane generazione falcidiata; ma tra gli operai militarizzati perirono anche dei bambini, come Piero Rigoni di Asiago, di soli 13 anni, o Caterina Boscardin di Lusiana, di 14; il più anziano tra i caduti fu il colonnello Rodeghiero Giovanni Battista di anni 52, primo ufficiale superiore dell'esercito italiano a cadere in combattimento, e il più giovane fu Giovanni Sartori di Rotzo, di anni 18, il cui fratello Matteo di anni 21 era morto in prigionia tre mesi prima [63].

     Al termine della Prima Guerra Mondiale [64] la popolazione, risalita sull'Altopiano, dovette affrontare immani difficoltà, soprattutto per i ritardati indennizzi, oltre alle tante tragedie per gli ordigni inesplosi ancora disseminati ovunque, per poter ricostruire i propri paesi completamente distrutti.

     In seguito, poi, il regime fascista con il Regio Decreto del 15 ottobre 1925, inizialmente predisposto per le sole aule giudiziarie e poi esteso a tutti i luoghi pubblici, proibì l'uso di altre lingue sul suolo nazionale e quindi impedì l'uso delle lingue di tutte le minoranze linguistiche, compresa la lingua cimbra sull'Altipiano.

      Decisa dal governo di Mussolini l'entrata in guerra nel 1940, dopo la firma dell'armistizio del settembre 1943, con  la cessione delle ostilità nei confronti  delle Forze alleate, l'altopiano divenne il luogo ideale per l'organizzazione della Resistenza per il Veneto occidentale, data la presenza di significative realtà boschive per nascondersi e ampi spazi per i rifornimenti aerei di armi e viveri, ma questo significò anche un aumento delle operazioni locali di polizia, con numerose tragedie familiari e collettive. Anche in questa occasione, quindi, il contributo di sofferenze dell'Altopiano fu enorme [65].

     Tuttavia, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, mentre l’isola alloglotta tedesca posta entro i confini della provincia di Trento (che tra l'altro nacque per emigrazione di un gruppo proprio dagli altipiani vicentini [66]), vide riconosciuta una speciale forma di tutela, quella posta sull’Altipiano al di qua di quel confine amministrativo non venne ricompresa. La Costituzione Italiana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, stabiliva all'art. 6 dei Principi Fondamentali che  "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche", ma solo dopo cinquant'anni, anche sulla spinta degli interventi del Consiglio d'Europa, finalmente venne approvata la Legge n.482 del 15 dicembre 1999, "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche" [67], permettendo così la scomparsa definitiva di tanti testimoni che ancora parlavano l'antica lingua 'cimbra', privi di un supporto pubblico di insegnamento e trasmissione. Il fatto che circa il 90% del territorio dell'Altopiano dei Sette Comuni non sia di proprietà privata né proprietà pubblica demaniale, ma sia di proprietà collettiva, ossia degli antichi abitatori, e soggetto a regolamento degli usi civici, ricorda ancora le antiche origini, ma, anche per  il venire meno del Consorzio dei beni dei Sette Comuni nel 1926, si è affievolita nel tempo la capacità di dialogo e collaborazione tra gli stessi cittadini e tra le stesse comunità locali [68] nell'affrontare e risolvere tanti problemi comuni. Nel frattempo il turismo, iniziato sul finire del 1800 ma con una esplosione dopo gli anni '60 del 1900, ha fatto riscoprire l'Altopiano e determinato un certo sviluppo, legato tuttavia soprattutto al settore immobiliare, con problematiche nuove, stante l'assenza di una pianificazione organica.

     Grazie al lavoro di ricerca e divulgazione degli storici e degli appassionati del territorio, anche attraverso le attività degli Istituti di Cultura, nonchè ai significativi contributi di ricerca etnografica [69], nel frattempo è stato recuperato e valorizzato in gran parte il patrimonio di lingua e cultura "cimbra", il senso di identità storica e dei valori sociali ed ambientali che essa esprimeva. 

     La minoranza tedesca dell'Altopiano dei Sette Comuni e quelle sorelle dei Tredici Comuni Veronesi e del Cansiglio, unitamente alle minoranze "cimbre" nella Provincia di Trento, negli ultimi decenni hanno  trovato anche il sostegno di alcune istituzioni in Germania e Austria: Curatorium Cimbricum Bavarense a Landshut, Freunde der Zimbern a Salisburgo e Cimbrenfreundeskreis a Tiefenbach. 

     L'instancabile attività del Comitato promotore [70] del referendum svoltosi sull'Altopiano il 6 e 7 maggio 2007, insieme a contemporanee iniziative in altre aree alloglotte,  hanno dato nuovi concreti contenuti alla coscienza storica delle comunità locali ed evidenziato lo spessore delle problematiche comuni del vivere in montagna, in particolare negli ambiti di confine tra le Regioni a Statuto Ordinario e le Regioni a Statuto Speciale. Le numerose iniziative promosse hanno portato alfine all'emanazione dei commi 117-121 dell'art. 2 della Legge 23 dicembre 2009 n. 191, che prevedono annualmente, grazie alle Provincie Autonome di Trento e Bolzano, la destinazione di 80 milioni di euro alle aree al loro confine, compreso l'Altopiano.

     Come nel passato i primi colonizzatori di queste montagne hanno potuto insediarsi e continuare a vivere quassù tanto quanto i pubblici poteri hanno riconosciuto loro particolari condizioni ed agevolazioni che ne avessero potuto compensare ristrettezze e limiti, valorizzando la funzione strategica (un tempo per la sicurezza dei confini, ora ambientale e culturale) del presidio di chi vive in montagna, così oggi sono necessari specifici provvedimenti legislativi per promuovere l'autonomia e lo sviluppo della montagna. Infatti la Legge  '97 del 1994, 'Nuove disposizioni per le zone montane', approvata in fretta sul finire di legislatura, non è mai stata pienamente applicata, soprattutto per quanto di competenza dei Ministeri centrali, né mai compiutamente finanziata, per cui da decenni languono in Parlamento proposte di modifica Parlamentari e Governative. In attesa peraltro che sia un provvedimento europeo a riconoscere con una idonea Carta, distinta dalle generiche previsioni per le aree rurali,  specifiche previsioni per la montagna, vista non più come problema ma come risorsa strategica della realtà europea, in particolare dove sussistono ancora minoranze linguistiche, testimonianze preziose delle  relazioni storiche tra i popoli europei e segno della diversità e vastità culturale che fa la ricchezza dell'Europa.

 

 

                                                                                                                                                                                Flavio Rodeghiero

 

 

in 'Rüdegar. Una storia familiare dell'Altopiano', Cierre edizioni, Sommacampagna (Vr) 2013, pp. 11-29.

 

 

 

 

NOTE:

[1] Perbellini G. - Rodeghiero F., Città Murate del Veneto, Verona 2011, p.77. 

[2] Tra gli studi geologici sui marmi 'marini' dell'Altipiano, che cominciano ad essere effettuati in particolare dalla seconda metà del XVIII secolo, interessante il lavoro di Andrea Rodighiero (il cui padre era Cristiano Rodeghiero, nato ad Asiago il 14 febbraio 1862, ma il cognome dei figli venne trascritto in Rodighiero una volta sceso in pianura), Il neocomiano dei dintorni di Gallio,  Padova 1915.

 

[3] Gruppo AssTaal, Guida alla Preistoria dell'Altopiano dei Sette Comuni, Bassano 1993, pp.83 ss.

[4] Guasco D., Popoli italici, Firenze 2006, p.110. I Reti erano stanziati nella regione delle Alpi centrali e orientali, parte della Baviera e della Svizzera, ma anche nella Valdadige da Verona ad Innsbruck. Gli studiosi non sono ancora arrivati ad una identificazione sicura della origine dei Reti: forse illirica, forse celtica, forse ambedue; Tito Livio (59 a.C. - 17 d. C.) aveva messo in relazione il popolo dei Rasenna ( il nome che gli etruschi davano a se' stessi), con quello dei Reti: ed in effetti il retico e l'etrusco sono entrambe lingue non indoeuropee, e peraltro le iscrizioni retiche sono trascritte in un alfabeto derivato dall'etrusco (vedasi in questo senso la descrizione dei reperti del Bostel di Rotzo come riportata da Nalli G., Epitome di nozioni storiche economiche dei 7 comuni vicentini, Vicenza 1895, pp.258-260.). Per il Rapelli sono Proto-Etruschi (Rapelli G., I Cognomi del territorio veronese, Verona 2007, p.18).

[5] Le relazioni politico-militari degli abitanti della pianura veneta con i romani iniziarono nel III secolo a.C.: il processo di romanizzazione della Venetia  avvenne in maniera graduale e senza traumi o conquiste manu militari, dato che tra il popolo veneto e romano si addivenne ben presto ad una forma di alleanza, ma questo dato archeologico ci attesta che la cosa non deve invece essere avvenuta con gli stanziamenti di origine retica insediati sull'Altopiano. 

[6] Bonetto J., Le vie armentarie tra Patavium e la montagna, Treviso 1997, pp.150-151.

[7] Cacciavillani I., La proprietà collettiva nella montagna veneta, Padova 1988.

[8] I Longobardi (che in verità si autodefinivano Winnili, cioè guerrieri) sono una popolazione ritenuta di origine scandinava (anche se oggi l'ipotesi e messa in dubbio), stanziatasi in Germania settentrionale, presso le foci dell'Elba, dalla fine del I secolo d.C., giunta poi  in Pannonia (attuale Ungheria) all'inizio del secolo V (subentrando ai Goti di Teodorico, che nel frattempo erano scesi in Italia) quale composito esercito di popolo  assoldato dall'Impero Bizantino: è di questo periodo l'inizio dei rapporti con la Baviera, infatti il re Vacone, che aveva guidato l'occupazione della Pannonia, dà sua figlia in sposa al duca di Baviera, Garibaldo. L'ultimo trasferimento dei Longobardi in Italia centro-settentrionale si ha con il re Alboino fra il 568 e il 569: si tratterà di circa 500.000 persone, che occupano una penisola che al quel tempo contava 8/9 milioni di abitanti. Di grande importanza per la nostra storia è l'occupazione dell'intera Val d'Adige, per cui tutta la zona fu direttamente od indirettamente riunita alla Baviera. Il re Longobardo Autari sposò nel 588 Teodolinda, la figlia di Garibaldo, e l'altra figlia di Garibaldo andò in sposa al duca longobardo di Tridentum (Trento), Evino. Quando poi, duecento anni dopo, cadde il regno longobardo, l'intero Alto Adige ed il Tirolo rimasero sotto il controllo della Baviera. Gli uomini in età da combattimento erano definiti Arimanni (da heer, esercito, e mann, uomo), ed erano organizzati in raggruppamenti 'in marcia' (le farae, da fahren, viaggiare). Vedasi: Cacciavillani I., Ordinamento giuridico dei Longobardi, Venezia 2011.

[9] I Franchi , una tribù inizialmente raggruppatasi nelle regioni di Cambrai e Tournai (Franchi Salii), e sulla riva destra del Reno, attorno a Colonia (Franchi Ripuarii), il cui re Clodoveo nel 482-483 si fece battezzare a Reims (o forse Tours), e dopo una serie di conquiste unificò la sede a Parigi, furono chiamati in Italia dal papato: con  papa Stefano II nel 754, e successivamente con papa Adriano I, il quale, dopo che il re longobardo Astolfo aveva fatto cadere Ravenna e successivamente il 770 tutto l'Esarcato di bizantino, timoroso di perdere il controllo del ducato romano e desideroso di rivendicare il controllo politico dei domini bizantini in Italia, chiamò Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve, nipote di Carlo Martello,  il quale occupò Pavia e spodestò il re longobardo Desiderio nel 774. Carlo Magno fu incoronato re del 'regnum longobardorum', che comprendeva la Pianura Padana, la Tuscia, le marche di Spoleto e di Ancona-Camerino.  Non ci fu un reale trasferimento del popolo Franco in Italia: i Longobardi non furono cacciati, solo furono imposti esponenti dell'aristocrazia franca nel controllo dell'Italia settentrionale, le cui genti rimanevano quindi prevalentemente latine e longobarde. I Franchi riconobbero al papa il controllo del Lazio, della Sabina e della Tuscia meridionale. In quel periodo il papa era solamente il vescovo del Lazio, scelto tra i conti di Tuscolo o le potenti famiglie laziali, uno dei cinque patriarchi (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme) impostisi come controllori dell'ortodossia cristiana, e al massimo aveva un 'primato d'onore': sarà solo con Gregorio VII  che si affermerà la monarchia papale, attraverso la sua opera il 'Dictatus papae' (1075) che sostenne la  supremazia del papa per diritto divino sulla Chiesa universale e sulle autorità laiche. 

[10] In epoca romana il fiume era chiamato “Medoacus”, probabilmente in riferimento ai due bacini più settentrionali della laguna di Venezia, quando esso seguiva come letto il corso dell'attuale Canal Grande ed ai suoi due lati vi erano i due suddetti bacini non ancora uniti in una laguna intera. Non tutta la bibliografia concorda che esistesse, nelle attuali valli del Canale di Brenta e di Valsugana, una colonia di Galli chiamati Mediaci; di certo durante il Medioevo comparve il termine "Brintesis", derivante, secondo l'opinione prevalente, dalle espressioni di ceppo germanico "Brint" (fontana) o "Brunnen" (scorrere dell'acqua).

[11] Vedasi: Pinto G., Dalla tarda antichità alla metà del XVI secolo, in Del Panta L. - Livi Bacci M. - Pinto G. - Sonnino E., La polazione italiana dal Medioevo ad oggi, Roma-Bari, 1996, pp.17-71. Intorno all'anno 1000 l'Italia ospitava 5,2 milioni di abitanti, nel 1150 la popolazione salì a 7,3 milioni (+40%), e nel 1300, considerato il momento del massimo sviluppo demografico, arrivò a 12,5 milioni (+77%), il 17,9 % della popolazione europea del tempo. Venezia contava più di 100.000 abitanti, Verona tra le 40.000 e 50.000 persone, Padova tra le 20.000 e le 40.000. Una linea  di sviluppo che si arresterà nel primo Trecento, a motivo di una serie di carestie (1275-1277, 1302-1302, 1328-1330, 1339-1340, 1345-1347) ed infine per la peste del 1348 e le successive epidemie, che però toccarono soprattutto le città, in particolare nell'Italia centrale, mentre sembrano non aver colpito l'Altopiano.  

[12] Bordone R. - Sergi G., Dieci secoli di medioevo, Torino 2009, pp.325-351.

[13] I diplomi di Berengario I, a cura di Schiaparelli L., Roma 1903, doc CI, pp.264-266. Berengario, duca del Friuli, rientrò nella successione imperiale perchè figlio della figlia di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno; la sua elezione non fu mai pacifica: sconfitto dagli Ungari nell' 899, cercò di stabilizzare la situazione distribuendo benefici e feudi; ma nella contesa del titolo di Re d'Italia con Ugo di Provenza utilizzò 5000 mercenari ungari per assediare Pavia, dove compirono una strage di civili: una congiura di feudatari ordì pertanto la sua uccisione a Verona nel 924, facendolo pugnalare mentre pregava durante la messa.

[14] I diplomi italiani di Lodovico III e Rodolfo II, a cura di Schiaparelli L., Roma 1919, doc IX, pp.120-122. 

[15] Conradi I, Heinrici I, Ottonis I Diplomata, a cura di Sickel Th. in MGH, Diplomata, Berolini 1956.

[16] von Ottenthal E., Regesta Imperii,  II/1, Innsbruck 1893, n.541.

[17] Polizzi C.F., Ezzelino da Romano, Romano d'Ezzelino 1989.

[18] La storia di come questo documento ci è pervenuto è molto complessa: solitamente tutti gli storici locali citano il documento così come fattoci pervenire dallo storico bassanese Giambattista Verci che lo inserì nell’appendice documentaria della sua “Storia degli Ecelini” del 1779, dopo averlo copiato dalla stesura che ne aveva fatto il trevigiano Azzoni Avogaro nel 1773, il quale a sua volta aveva ripreso una copia trascritta dal cardinale Alessandro Furetti, abate commendatario di Villanova, riprendendo a sua volta una copia redatta il 24 dicembre 1489, ma gli errori di trascrizione da una copia all'altra furono numerosi, come dimostrato da Paolo Miotto nella sua opera 'Il territorio di Villa del Conte nella storia, l’abazia di S. Pietro e S. Eufemia, S. Massimo di Borghetto e la Contea del Restello', edito a Noventa Padovana 1994, dove ha riprodotto fedelmente la copia fedele all'originale da lui ritrovata nell'Archivio di Stato di Venezia e datata 11 dicembre 1489.

[19] Settia A.A., Vicenza di fronte ai Longobardi e ai Franchi, in Storia di Vicenza - L'età medievale, Vicenza 1988, p.9.

[20] Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano, a cura di Fiorese F., Mondadori 2004.

[21] Fasolo G., Signoria feudale ed autonomie locali, in Studi ezzeliniani, Roma 1963, p.8.

[22] Perbellini G.- Rodeghiero F., Un network medievale: le città murate venete, in Castellum n.51, Roma 2009, p.11.

[23] Verci G.B., Storia degli Ecelini, Bassano 1779.

[24] Bordone R.-  Sergi G., op. cit., p.303.  Nell'alto medioevo, tanto in Occidente quanto nel mondo bizantino, era normale che esistesse un certo numero di chiese  private ('ecclesiae propriae'), che potevano dipendere da laici o anche da monasteri (che propriamente erano comunità di preghiera, non avevano cioè una funzione ecclesiastica, cioè di 'cura d'anime'):  chi era in grado di edificare una chiesa lo faceva, in quanto fattore di prestigio e di consenso sociale, però non la considerava privata, ma la metteva a disposizione degli abitanti, per la messa e i sacramenti; tuttavia il proprietario sceglieva il sacerdote (che doveva essere accettato dal Vescovo), e gli spettava una decima sul raccolto per il mantenimento della chiesa stessa. 

[25] Weingartner J., Die Kunstdenkmäler Südtirols. Bozen Umgebung, Unterland, BurggrafenamtVinschgau, II, Bozen 1991, pp.492-494.

[26] Assieme a queste, altre città in Baviera conservano la presenza di importanti ed antiche chiese dedicate a S.Margherita: Augsburg, Dachau, Dornach, Einsbach, Ellmosen, Forchheim, HeimenKirch, Kleininzemoos, Krailling, Markt Schwaben, Landshut, Sendling-Monaco, Schonberg, Teisnach, Tiefenbach...

[27] Testa M., I Quattordici Santi Ausiliatori, origine e sviluppo del culto in Alto Adige, Bolzano 1996, pp.23-24.

[28] La prima controversia nella cura d'anime tra il monastero ed il clero diocesano, venne intentata proprio dal titolare di una chiesa dedicata a  S.Giustina, pre' Giovanni, titolare della Chiesa di Solagna: Verci G.B., op. cit., doc XXXV, pp.52-53.

[29] Prevedello G., Episcopium Sanctae Iustinae Patavensis Ecclesiae, Abbazia di S.Giustina, Padova 1974.

[30] Fumagalli Beonio Brocchieri M., Federico II, Bari 2006, p.166. 

[31] Guelfi e ghibellini sono termini che appaiono in Italia verso il 1240 a Firenze, e da qui si diffondono in tutta la penisola: in origine ci si riferiva all'antagonismo fra la dinastia dei Welfen, Duchi di Baviera e poi di Sassonia, e quella degli Hohenstaufen, Duchi di Svevia e signori del Castello di Weiblingen, ma designarono poi le due fazioni che dal XII secolo, nel contesto del conflitto tra Chiesa ed Impero e del movimento Comunale, sostennero il papato (guelfi) o l'imperatore (ghibellini).

[32] Per riaffermare la propria sovranità Federico I si rifece alla tradizione romana e carolingia; fu proprio la rinascita dello studio del Diritto romano nell'Università di Bologna, in particolare del Corpus iuris civilis di Giustiniano, a sostenere le rivendicazioni dell'Imperatore nei confronti della Chiesa e dei Comuni: il suo obiettivo, nel dirimere le conflittualità tra i poteri locali e nell'affermare l'autonomia della potestà civile dal potere religioso, era il sogno romano e poi cristiano della pace perpetua e dell'armonia universale.

[33] Cracco G., Nuovi studi Ezzeliniani, Roma 1992. Il Duecento fu l'epoca delle guerre fra città e fra fazioni interne alle stesse città, di lotte fra casati, scontri fra milites e populus, combattimenti per il potere fra lignaggi signorili e mercantili, che portò alla nascita della stessa figura del podestà,  magistrato forestiero per il governo supra partes dei Comuni: in questo contesto si inserisce la figura di di Ezzelino III,  che si avvalse dell'alleanza imperiale per affermare il controllo su un territorio sovracittadino e garantirne i pacifici traffici commerciali, anticipando il fenomeno storico della nascita dei nuovi regimi delle Signorie, le quali, per la forza coercitiva e la centralizzazione istituzionale, garantiranno successivamente lo sviluppo economico  dei propri domini territoriali.

[34] Prezzolini G., L'Italia finisce ecco quel che resta, Milano 2003, pp.24-39. 

[35] Bertelli C. - Marcadella G., Ezzelini, Signori della Marca nel cuore dell'Impero di Federico II, (Catalogo Mostra), Milano  2001.

[36] Cacciavillani I., Un pre-veneto: Ezzelino III da Romano, in Alta Padovana, n 04-2005, p.39.

[37] Cracco G., Nato sul mezzogiorno, Vicenza 1995, p.72.

[38] Franzina E., L'Altopiano e Vicenza nella storia, in Quaderni di cultura cimbra, n.14-1984, pp.73-76.

[39] Ruffolo G., Quando l'Italia era una superpotenza, Torino 2004, p.272-280.

[40] Cacciavillani I., I privilegi della Reggenza dei Sette Comuni. 1339-1806, Padova 1984, pp.44 e 53.

[41] Per maggiori approfondimenti vedasi: Ravegnani G., Bisanzio e Venezia, Bologna 2006.

[42] Cortelazzo M., Manuale di cultura veneta, Venezia 2004, pp.40-41.

[43] Basso M., Nota sulla cronologia veneta in margine alla data dell'atto di dedizione della spettabile Reggenza dei Sette Comuni alla Repubblica Serenissima, in Quaderni di cultura cimbra, 21-1987, pp.26-30. 

[44] Bonato M., Storia dei Sette Comuni e contrade annesse dalla loro origine sino alla caduta della Veneta Repubblica, Padova 1857-1893, t.1, l.1, p.77.

[45] Cacciavillani I., Il patto di dedizione della Spettabile Reggenza dei VII Comuni alla Serenissima Repubblica di Venezia, in Quaderni di Cultura Cimbra, 9-1981, p.492.

[46] Gios P., Disciplinamento ecclesiastico sull'Altipiano dei Sette Comuni nella seconda metà del Quattrocento. Le visite pastorali dei vescovi di Padova, Trento 1992.

[47] Castaldini A., Il calice di S.Giovanni, Roana 1995.

[48] Sartori A.D., Storia della Federazione dei Sette Comuni Vicentini, Gallio 1956, p.157.

[49] Cosa che avvenne successivamente con un'ordinanza imperiale austriaca del 25 giugno 1856 e poi con le leggi dello Stato italiano (l. 4 marzo 1860, n. 4939), estese successivamente al Veneto, per cui fu abolito il diritto di pascolo (c.d. pensionatico) nelle province venete.

[50] Sartori A.D., op. cit., p.264.

[51] Ibid., p.267.

[52] Brunello P., Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866, Verona 2011, p.20.

[53] Bonato M. (a cura di  Basso M.),Trattato della lingua e letteratura cimbrica (ossia tedesca), in Quaderni di cultura cimbra, 15-16, 1984. Molto illuminante il contributo di  Koslovic A., Per una storia del Risorgimento sull'Altopiano dei Sette Comuni, in Quaderni di cultura cimbra, 21-1987, pp.8-25: il Comitato Provvisorio di Vicenza, senza avvertire il Governo Provvisorio della Veneta Repubblica di Venezia, indisse per il 17 maggio un voto in tutta la Provincia per l'annessione immediata allo Stato Sabaudo: sull'Altopiano i registri di voto rimasero chiusi quasi dappertutto; illuminante è pure l'altra definizione adottata dalla formazione di volontari, che fu "Crociati dei Sette Comuni", avendo in mente un futuro stato federale italiano sotto la guida del nuovo papa Pio IX, il quale aveva realizzato riforme liberali e promosso la Lega Doganale tra gli stati pre-unitari, sullo stile dello Zollverein tedesco (gli stessi Decreti del Comitato Provvisorio di Vicenza per coivolgere le masse utilizzavano il distico "Italia libera-Viva Pio IX"): speranze che vennero ben presto meno per i ripensamenti di Pio IX e le ambizioni espansionistiche del Regno Sabaudo; più in generale, su motivazioni e livello della partecipazione popolare, vedasi: Clark M., Il Risorgimento Italiano, Milano 2001.

[54] Kozlovic A., L'economia dei Sette Comuni alla vigilia dell'annessione al Regno d'Italia, in Quaderni di cultura cimbra, 34-1993, pp.5-26.

[55] Uggé A., Le entrate del Regno Lombardo-Veneto dal 1840 al 1864, in Archivio Economico dell'Unificazione Italiana, Torino 1956.

[56] Frigo S., Noi e loro, Treviso 2005, p.20.

[57] Gaeta F. - Villani P., Corso di Storia, vol. 3, Milano 1977, p.311.

[58] Gibelli A., La grande guerra degli italiani 1915-1918, Milano 2009, p.72. Il Re d'Italia dichiarò guerra con le parole:"A voi la gloria di piantare il tricolore sui termini sacri che la natura pose ai confini della patria nostra", mentre Francesco Giuseppe comunicava:"Il re d'Italia mi dichiarò guerra....un tradimento fu consumato". 

 

[59] Ecco quello che scriveva Benito Mussolini in quei giorni su ‘Il Popolo d’Italia’ (n.151 – giovedì 1 giugno 1916, prima pagina): Ora che nelle vostre città non vi son più tedeschi, se non di quei nostrani, né altri esotici, quando incontrate un forestiero, guardatelo bene sul muso. Avvicinatelo, parlategli. Non è d’oltralpe, è italiano, almen di nascita. Chiedetegli di dov’è. Se vi risponde che è di Vicenza, o di Treviso, o di Verona o di Padova, o di Milano, o giù di lì, ebbene, egregi cittadini, ci siamo, è lui, senza pericolo di ingannarsi, lui in persona, il vigliacco completo e perfetto. Egli è scappato di qua perché ha paura degli aeroplani, perché ha paura dei tedeschi, perché ha tutte le paure, anche della sua ombra. Sputategli sul muso…’.

[60]  Vedasi i diari di don Andrea Grandotto: Grandotto A., Diario di un prete internato (1915-1916), Vicenza 1984.

[61]  Ministero Terre Liberate. Ufficio Censimento, Censimento dei profughi di guerra 1918, Roma 1919.

[62] Rodeghiero F., Noi, che fummo giovani...e soldati. L'altipiano e i suoi caduti nella Grande Guerra, Venezia 2016. p.37.

[63] Ibid., pag.69

[64] Il restauro e la valorizzazione storica e culturale delle vestigia di ambo le parti in conflitto sono stati recentemente possibili grazie alla legge 7 marzo 2001, n.78, il cui testo base fu presentato il 26 novembre 1996, quale "Progetto Ortigara: alpini per la pace", dall'allora vice-Presidente e Assessore alla Cultura della Comunità Montana "Spettabile Reggenza Sette Comuni" Flavio Rodeghiero, membro della Commissione Cultura della Camera dei Deputati. In particolare il successivo emendamento che presentò alla Legge Finanziaria 2004, fatto approvare il 3 dicembre 2003, diventato quindi comma 179 dell'art.4 della Legge 24 dicembre 2003, n.350, permise finalmente agli Altipiani vicentini di poter utilizzare pienamente le risorse accantonate.

[65] Vedasi: Gios P., Resistenza, parrocchia e società nella Diocesi di Padova 1943-1945, Venezia 1981.

[66] Reich D., Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Bologna 1987: Friedrich von Wangen, principe e vescovo di Trento dal 1207 al 1218, discendente da una nobile famiglia bavarese imparentata con i Conti del Tirolo, colonizzò i suoi possedimenti nell'area di Folgaria concedendo un finanziamento di 7 lire veronesi e l'esenzione dal pagamento delle tasse per alcuni anni a popolazioni tedesche della montagna vicentina. Vedasi anche  Prezzi C., Isole di Cultura - Lebendige Sprachinseln, Saggi sulle minoranze storiche germaniche in Italia, Bolzano 2004, pp 79-123.

[67] Tra le sette Proposte di Legge,  in base alle quali venne costruito il dettato normativo della 482/1999 alla Camera dei Deputati, anche  la proposta di legge, Atto Camera 1867, "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche", presentata il 12 luglio 1996 dal deputato Flavio Rodeghiero, membro dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa quando venne adottata il 10 novembre 1994  la "Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali" (ratificta dall'Italia nel 1997 ed entrata in vigore il 1 marzo 1998). All'art. 1 della proposta n.1867 si prevedeva esplicitamente la protezione della lingua e della cultura delle popolazioni di lingua cimbra, che tuttavia non fu inserita nel testo base, né furono accettati gli emendamenti presentati in tal senso durante l'esame  in Commissione. Nell'ottobre  1996 presentò inoltre una risoluzione per chiedere l'impegno del Governo ad assumere le iniziative necessarie affinché fosse tempestivamente sottoscritta e ratificata la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie presentata dal Consiglio d'Europa a Strasburgo il 5 novembre 1992 (firmata dall'Italia nel 2000 ma poi mai ratificata).

 

[68] Vedasi a questo riguardo la lucida analisi di Kezich G., La cimbra fenice: il germanesimo altopianese tra storia e vita quotidiana, in L'altopiano dei Sette Comuni, Verona 2009, pp.463-475.

[69] In particolare il lavoro condotto dalla cav. Gianna Francesca Rodeghiero, vedasi : Rodeghiero G.F., Arti e mestieri perduti, Marostica 1986; Rodeghiero G.F., Donna lavoro famiglia, Vicenza 1998;  Rodeghiero G.F., in Aa.Vv., Uomini campi boschi, Vicenza 2000, pp.83 ss.; Rodeghiero G.F., Tradizioni della gente di Lusiana, Bassano del Grappa 2002; Rodeghiero G.F. (a cura di), La pietra e l'uomo nella Pedemontana Vicentina, Villaverla 2003;  Rodeghiero G.F. (a cura di) Il legno e l'uomo nella Pedemontana Vicentina, Villaverla 2005; Rodeghiero G.F. (a cura di), I metalli e l'uomo nella Pedemontana Vicentina, Vicenza 2008. 

[70] Coordinato dal cav.Francesco Valerio Rodeghiero, attuale Presidente della Federazione Cimbri Sette Comuni.

 
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